- 31 Gennaio, 2024
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Gente di mare
Sea-dreaming: lo zen delle acque profonde
Leggo il saggio di Bonnie Tsui Perchè nuotiamo. Cerco risposte a una fascinazione personale, ma altrettanto condivisa.
Non ci facciamo mai le domande più semplici: Io perchè nuoto? E tu? E chi non nuota, perché non lo fa? Nel libro Bonnie, contributor del NYT, ma soprattutto esperta nuotatrice e surfista, esplora una questione grande come l’oceano. Sopravvivenza, salute, comunità, competizione e flow: l’autrice procede nella sua ricerca per macrotemi, alternando il racconto personale. E poi ci sono storie di personaggi incredibili, storie di adattamento, rinascita, agonismo e ossessione, storie epiche.
È un libro densissimo e liquido, che lascia pieni di curiosità e voglia di saperne sempre di più. È così che dovrebbe essere. Sfoglio le pagine e annoto le parole ricorrenti: gioco, meditazione, meraviglia, vertigine, rituale, liturgia, contemplazione, magia, mistero, sacralità. Capite bene che la questione non è di superficie.
Con ordine: più del 70% della superficie terrestre è coperta d’acqua, siamo letteralmente immersi. Eppure siamo solo animali terrestri che tentano di nuotare. “Ci portiamo dentro le tracce affascinanti di un passato natatorio. È come se ospitassimo nei nostri corpi i fantasmi di altri animali”. In pratica andiamo alla ricerca di un’esperienza primordiale. L’acqua stessa è un animale vivente, vitale e pieno di vite. Immergerci nell’oggetto più grande del mondo consente di contemplare l’interconnessione: siamo parte di tutte le cose.
Secondo un principio cardine del Nihon eiho, l’antica arte marziale del nuoto nipponico dei samurai “La mente è come l’acqua”. Il nuoto in mare aperto implica una resa all’elemento, una perdita di controllo. “Imparare a nuotare è stato imparare a rifiorire in uno spazio di incertezza. È liberatorio e spaventoso” dice Kim Chambers, una delle migliori nuotatrici in acque libere del mondo che ha iniziato a nuotare dopo aver rischiato l’amputazione di una gamba.
In mare si vive una libertà atemporale, con i sensi accesi al massimo tra euforia e paura. È un luogo alieno che custodisce il pericolo e ci invita a rinunciare a noi stessi per accedere ad un’altra dimensione. Può essere destabilizzante o esaltante, fino a scomodare la categoria del sublime secondo il filosofo australiano Damon Young.
In acqua possiamo isolarci dalla realtà e andare a recuperare una più autentica percezione del sé. Lo dice anche Ismaele in Moby Dick “meditazione e acqua sono unite per sempre in matrimonio”. Nel ritmo del respiro acquatico qualcosa ci cambia e ci calma.
Ai nuotatori esperti, che assimilano gli automatismi della tecnica, succede di dimenticare l’acqua: la mente vaga in uno slittamento percettivo che chiamiamo meraviglia. Il tempo si espande. È il flow, una concentrazione totalizzante dove l’io sembra svanire. Uno stato mentale estatico di ininterrotto presente: si sogna a occhi aperti e la mente si fa capace di connessioni inaspettate. È la creatività della “blu mind” di W.J. Nichols, è il sea-dreaming descritto da Lynne Cox. In pratica ci smarriamo nel piacere sensoriale dell’azione stessa e dimentichiamo chi siamo.
Nuotiamo per non annegare eppure, secondo la definizione di antropologia, il nuoto è uno stato perenne di non annegamento. “Siamo attratti dal paradosso dell’acqua come ambiente di vita e di morte”. L’insondabile diventa attrazione, vertigine. Fa paura, ed è giusto che sia anche così, perché riaccende il desiderio di restare vivi.
Per la scrittrice Lidia Yuknavitch “grazie all’acqua un corpo ricorda che tempo e vita sono fluidi”. Tutto si tiene. Nuotare è scendere a patti con la precarietà della vita. Chi ama davvero il mare supera la resistenza a immergersi in acque gelide, sconosciute, agitate, popolate. Scende negli abissi per conquistare almeno un pezzetto dell’ignoto che è dentro di noi. E forse riesce a sfiorare, senza peso, qualcosa di sacro. O almeno ci prova, inseguendo bracciata dopo bracciata il blu che Rebecca Solnit definisce “il colore di dove non siamo”.
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