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20 Nov 17:41

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Collaborazioni

Intervista a Nicolò Porcelluzzi, autore di Sonar: un podcast su come il linguaggio costruisce la realtà, anche sott’acqua

In questo momento, oltre i confini del sistema solare, i canti delle megattere viaggiano nello spazio interstellare. Sono incisi (insieme a musica da ogni parte del mondo, saluti umani in 55 lingue e altri suoni naturali) sul Golden Record: un disco – appunto d’oro – custodito nelle sonde Voyager lanciate dalla NASA nel ‘77. Tentativo sonoro – un po’ romantico – di raccontare l’umanità e la vita sul nostro pianeta a forme di intelligenza extraterrestri. E penso già alla faccia che farà l’alieno di turno…

Questa cosa l’ho scoperta ascoltando Sonar, un audio documentario che si interroga sul suono e sull’ascolto. Sonar è prodotto da Il Post, scritto e narrato da Nicolò Porcelluzzi: è un viaggio acustico negli abissi, e nelle menti degli animali che li abitano. Misteriose creature che vedono e comprendono il mondo attraverso l’udito, e di cui noi sappiamo davvero poco.

Ma Sonar non è solo questo: si parla anche di altri animali, di cultura e di linguaggio, di John Cage e Erik Satie, di apprendimento sociale, film di fantascienza e Deep Listening. Nicolò ha intervistato bambini, ricercatori e biologi marini, compositori ed esperti di intelligenza artificiale. È consigliabile ascoltarlo almeno un paio di volte: vi si apriranno tante matrioske di curiosità che ne contengono altrettante. Intanto vi racconto qualcosa io, e poi lascio la parola all’autore a cui ho fatto qualche domanda.

Il mondo suona, dobbiamo solo ascoltare

Il tema che più mi ha catturato è quello della percezione. Noi umani siamo circondati da frequenze che ci attraversano costantemente e che neanche riusciamo a sentire – a differenza di molti animali – così come ci sono colori che non riusciamo neanche a vedere. Oltre al fatto che viviamo sovrastati dal rumore: l’inquinamento sonoro generato dall’uomo occupa le frequenze che un tempo erano utilizzate dal mondo animale. Non sentiamo, ma soprattutto non ascoltiamo più niente, e stiamo facendo solo danni.

Il suono è un’onda materica di pressione, per noi ha a che fare col tatto, è un movimento che ci tocca. Per i cetacei, e per altri animali, ha che fare con la vista, l’ecolocalizzazione è la capacità sensoriale che usano per creare una mappa acustica e visiva dell’ambiente che li circonda, per orientarsi e cacciare nel buio. Sono letteralmente immersi in una rete sonora, un universo fatto di suono. Ma è anche il loro strumento per comunicare e socializzare.

Condividiamo lo stesso mondo, ma lo percepiamo assai diversamente. È la cosiddetta embodied intelligence: ogni intelligenza è legata al suo corpo fisico e ha una sua comprensione dell’ambiente che lo circonda.

Ogni mattina io mi sveglio col muso del mio gatto a due millimetri dalla faccia. A volte gli faccio domande filosofiche tipo “Ma tu, lo sai che esisti?” Lui comunica attraverso la vibrazione delle fusa, e mi chiede risposte tattili o emotive, non parole. Per dire.
 Come possiamo pensare di capire esseri viventi che hanno un’esperienza del mondo così lontana dalla nostra? Eppure ci proviamo in tutti i modi. Ascoltando Sonar scoprirete anche cosa fa CETI (Cetacean Translation Initiative), un progetto scientifico internazionale che mira a decifrare il linguaggio dei capodogli attraverso la raccolta di dati sonori e comportamentali, l’utilizzo di reti neurali e algoritmi di machine learning. Vogliamo parlare con loro a tutti i costi, capire se è possibile un dialogo tra specie. Perché?

Salviamo solo quello che ci somiglia

Il capodoglio crea il suono più potente del regno animale, un click che può raggiungere i 240 decibel, il cui significato e utilizzo cambia in base al modo e alle circostanze in cui viene prodotto. Ci sono i click singoli, emessi nel buio delle profondità oceaniche, per localizzare le prede, e poi ci sono dei pattern di click chiamati coda: una sorta di codice Morse che viene utilizzato per la socialità in determinate situazioni o contesti. Un linguaggio vero e proprio, un marker identitario per dirsi cose come: ciao, questo sono io, questo è il dialetto della mia gente, io vengo dal Mediterraneo e tu?

I capodogli sono creature timide, dedite alla famiglia. I loro click irradiano vibrazioni che si estendono per chilometri, sono tra le specie più intelligenti del pianeta e hanno strutture sociali complesse, come noi. Sono mammiferi che sono stati terrestri, come noi. Si scambiano messaggi per conoscersi, rinforzare i legami e trasmettere un sapere condiviso: come noi. Le nostre vite si somigliano molto, anche se esperiamo il mondo in modi profondamente diversi. Per noi e per loro, il senso dell’esistenza sta nelle relazioni, emettiamo suoni per riconoscerci come comunità, per raccontare chi siamo, condividere esperienze e sentirci meno soli.

Nicolò, da dove arriva questa fascinazione per il suono, per i suoi meccanismi e significati nel regno umano e non umano?

Non ho iniziato a scrivere pensando che avrei fatto audio documentari, mi è stato proposto e da lì ho lavorato a quattro progetti. C’era però un principio di insofferenza, ero stanco di scrivere podcast dove il suono non aveva una grande parte, non mi interessa troppo il formato audio se deve soltanto veicolare una storia. Mi interessa di più sfruttarlo per le sue caratteristiche e potenzialità, quindi mi sono chiesto cosa differenzia questo tipo di medium da altri, ed è proprio questa connessione diretta tra il suono e le orecchie di chi ascolta.

Inoltre, da anni, prima ancora dell’esordio di Medusa – una newsletter che scrivo con Matteo De Giuli – mi sono trovato a fare letture di natura scientifica sotto vari aspetti, tra cui sicuramente l’etologia e il comportamento animale. Carl Safina è uno degli autori più interessanti al mondo su questo tema, leggendo il suo saggio sui capodogli l’ho trovato commovente e importante, e mi sembrava incredibile che questa storia non fosse accessibile a tutti. Ho pensato che il suono poteva essere al centro di questo progetto, da lì ho iniziato a scrivere l’idea e la struttura del podcast. Diciamo che la mia fascinazione per il suono nasce dall’incontro di queste due contingenze.

Ma ora veniamo all’intervista.

In Sonar si parla molto di studi acustici sui capodogli, delfini, megattere e altri animali. Del nostro tentativo di decifrarne il linguaggio e di comunicare con loro. Carl Safina – che hai già citato – sostiene che noi umani ci affidiamo troppo al linguaggio e troppo poco ai sensi e alle emozioni, e questo deteriora la nostra capacità di osservazione del mondo. Secondo te che cosa dovremmo imparare davvero da questi studi, e cosa dovremmo disimparare per capire meglio il regno animale?

Mi rendo conto che possa suonare un po’ arrogante, ma quello che dobbiamo disimparare è un approccio riduzionista: quell’impulso che ci riporta a spiegare tutti i fenomeni esistenti secondo schemi riconducibili a un presunto linguaggio oggettivo scientifico che supera le sorprese della materia, come se ci fosse sempre una risposta chimica, biologica, fisica.
Pensare che la scienza abbia risposta per tutto è una mancanza di rispetto per il processo scientifico stesso, che rimodula e rinegozia ciclicamente i suoi fondamenti.

Il lato debole di questa risposta è che molte persone ragionano in un altro modo, seguendo logiche interiori emotive e affettive, e chi ragiona così è già salvo dalla minaccia del riduzionismo, di cui sono affetti di più gli studiosi e i ricercatori. Allo stesso tempo, portare all’estremo uno sguardo emozionale-affettivo e proiettarlo sul mondo animale, può creare altri errori di prospettiva. La prima trappola è un tipo di antropocentrismo logico, la seconda è una forma di antropocentrismo magico e irrazionale. Quello che questo progetto vuole dire –e ricordarci – è che loro non sono come noi.

Possediamo sempre più conoscenze scientifiche e tecnologiche, eppure ogni volta che ci approcciamo all’ecosistema marino, e più in generale al non umano, ci imbattiamo in temi enormi e insondabili. Succede anche in Sonar, dove si parla di arte, di bellezza, di percezione e identità. Spesso la megafauna carismatica viene paragonata a una civiltà aliena: ma i canti delle megattere e i click dei capodogli sono più antichi di qualsiasi civiltà umana, siamo noi gli alieni, gli ultimi arrivati. Si sfiora il tema del sacro. Perchè ci ostiniamo a voler capire e decifrare, quando potremmo semplicemente ascoltare, rispettare e - magari - proteggere quello che ci è alieno?

So che questa domanda è retorica (ride ndr), è la stessa che mi faccio anche io, e la mia opinione ovviamente la distribuisco nelle due ore e mezza di podcast.  Forse quest’ultima è una meta-risposta: cerca di colmare lacune di cose non dette in precedenza. Perché non lo facciamo? Lo sappiamo già tutti: non siamo mai stati così disconnessi e lontani dal contesto naturale, e abbiamo introdotto un cervello e un corpo animale in un mondo che ha sempre meno di animale, parlo della nostra società. (Noi umani) ci troviamo ad avere pezzi di cervello rettile, e risposte del sistema nervoso che non sono adatte alle finte minacce della vita che dobbiamo affrontare tutti i giorni, soprattutto se viviamo in un paese occidentale fortunato e ricco!

Ho provato quindi ad andare alla radice delle domande che sono alla base di questo progetto: che cosa unisce la società? Perché stiamo insieme? Cosa significa famiglia? Cosa del rapporto tra gli animali può dirci qualcosa rispetto a quelli tra persone?

Uno dei punti chiave ha sicuramente a che fare con l’ascolto come prima manifestazione della vita: il bambino, il feto entra in ascolto del corpo che lo ospita e del mondo fuori, e la madre allo stesso tempo ascolta la vita che lei ospita.

E mi è sembrato evidente il parallelo tra questa situazione di primati e la situazione di mammiferi separati da chilometri d’acqua fredda e buia, ma uniti dal suono. Il suono è una forma di contatto, e in questo io vedo una via d’uscita, una strategia, una speranza per tornare presenti, in ascolto.

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Fonte: Shutterstock
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