- 14 Dicembre, 2023
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La via del mare di Fabrizio De André
Il 6 agosto del 1998 ho avuto la fortuna e l’onore di assistere ad un concerto di Fabrizio De André. Avevo poco più di vent’anni, era piena estate, la mia testa e i miei ascolti andavano da tutt’altra parte, a quel grunge che di lì a poco sarebbe stato un ricordo doloroso, così come sarebbe stato davvero atroce il ricordo di Faber che sarebbe morto l’anno successivo. A quel tempo, fosse stato un altro cantante italiano (ad eccezione solo di Franco Battiato), non l’avrei minimamente calcolato, seguivo tutta musica straniera, eppure De André riuscì ad entrarmi nel cuore per una mossa tanto bizzarra quanto meravigliosa: recuperare il dialetto a lui caro, quel genovese antico – per creare una nuova musica che sapesse di terra e di mare, di barche e di attracchi, di persone che hanno stampate sulla faccia le onde e il sole: Creuza de mä.
La world music nasce nel porto di Genova
Fu nel 1984 che Fabrizio De André, uscito come di consueto da un album storico – L’indiano – volle dedicarsi a un disco tutto cantato in genovese, che per molti secoli è stata la lingua impiegata dalla gente che partiva per mare, dal basso medioevo al XVII secolo. “Assurdo”, tutti pensarono al tempo. “Proprio Fabrizio De André, famoso come poeta che presta i suoi versi alla musica, crea un album in cui le parole non verranno capite neanche dai genovesi, a causa di un dialetto strettissimo e quasi arcaico?”. Eppure con quel disco, nel mezzo degli anni Ottanta sintetici, grazie anche alla collaborazione con l’ex PFM Mauro Pagani, Faber è riuscito a creare un’opera musicalmente senza tempo, che in qualche modo ha dato i natali alla world music prima ancora che Peter Gabriel la facesse propria, che David Byrne dei Talking Heads ha definito uno dei dischi internazionali più importanti del decennio.
I marinai che vanno alle taverne, per poi tornare al mare
Superata la barriera linguistica, che da sempre non permette a un album italiano di avere un respiro internazionale, la musica di Fabrizio De André diventa di tutti, così come i suoi racconti evocativi e spettacolari di donne dalla pelle scura che attendono i marinai, di esattori delle tasse appiccicosi, di prostitute e di vittime della guerra, ma soprattutto di marinai che che vanno per mare dove la luna si mostra nuda, dove la notte punta il coltello alla gola, che provano esperienze crude e romantiche prima di tornare alla terraferma, alle taverne di porto per assaggiare prelibatezze – ma non solo, pure piatti che solo a sentirli ti vien voglia di scappare via. E alla fine che succede? Quel che c’immaginiamo: “E nella barca del vino navigheremo anche gli scogli, finché un mattino, padrone della corda marcia d’acqua e di sale, con quella stessa corda ci riporterà al nostro destino, lungo una cosa di mare”.
Il viaggio per mare come metafora della vita stessa
Il disco dell’eterno viaggiare si chiude con il brano Da a me riva, e il protagonista è di nuovo quel marinaio che torna alla navigazione e che deve salutare l’innamorata con un canto d’addio, mentre lei lo guarda partire dal molo di Genova. Fabrizio De André diceva di questa conclusione: “Quando un navigante abbandona la banchina del porto della città in cui vive arriva il momento del distacco dalla sicurezza, dalla certezza, sotto specie magari di una moglie, custode del talamo nuziale, agitante un fazzoletto chiaro e lacrimato dalla riva; il distacco dal pezzetto di giardino, dall’albero del limone, e, se il navigante parte da Genova, sicuramente dal vaso di basilico piantato lì sul balcone. È un momento sottilmente drammatico che si vive accecati come da un controsole”. Con queste parole nel cuore, ascoltiamo di nuovo quelle melodie che sanno di mare, viaggio e scoperta di sé.
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